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Se non ci fossero state le “straniere” questa moto italiana dimenticata sarebbe una regina ora

Una moto italiana ha fatto la storia, bruscamente interrotta sul più bello dalla concorrenza delle straniere. Facciamo un tuffo nel passato.

Ci sono moto che solo a ricordarle vengono i brividi, che solo il rievocare i loro nomi riaffiorano alle mente epoche lontane, tempi che non torneranno mai più, come quei magici anni 80, spensierati, temerari, folli, incoscienti.

La moto italiana dimenticata (Nextmoto)

Eppure c’è da dire che, nel caso della moto di cui vi stiamo per raccontare, icona degli anni 80, rigorosamente Made in Italy, il destino poteva essere in fondo ben diverso, se questo marchio di casa nostra non si fosse imbattuto, all’epoca, in una serie di moto straniere che gli hanno decisamente reso la vita difficile.

Stiamo parlando della Cagiva, e in particolare della Elefant 650. L’azienda italiana vede la luce per la prima volta nel 1950, fondata da Giovanni Castiglioni, Il nome del marchio nasceva unendo le lettere del suo creatore con quelle della città dove è stata fondata la fabbrica, ovvero Varese.

Ad inizio anni 80 fu un vero e proprio boom: Cagiva vendeva i suoi modelli da Varese all’Australia, e fu una espansione inattesa in tutto il mondo. Per sostenere la sua crescita, l’azienda acquistò motori Ducati, da 350 cc a 1000 cc. Cagiva stava riscuotendo un tale successo che nel 1986 aveva rilevato non solo Ducati, ma anche Moto Morini e Husqvarna, e a quel punto vendeva in più di 50 paesi.

E’ evidente, però, che la concorrenza delle “straniere” con il tempo frenò e non poco l’ascesa del marchio italiano, con le moto giapponesi e quelle britanniche che misero decisamente i bastoni tra le ruote a Cagiva.

Cagiva Elefant 650: un mito dimenticato troppo presto

Impossibile non raccontare la storia di quello che era il modello di punta, ovvero la Cagiva Elefant 650, una delle moto da cross più belle che si siano mai viste al mondo. Quando i produttori di automobili o moto chiamano un modello con il nome di un animale, di solito optano per una bestia agile, agile, veloce o letale; pensate a Triumph Tiger, Montesa Scorpion o auto come la Ford Cougar o la Shelby Cobra.

Il mito della Cagiva Elefant 650: spopolò a inizio anni 80. Nella foto il compianto fondatore Castiglioni (ansa foto) – nextmoto.it

Giovanni Castiglioni di Cagiva scelse, però, l’elefante come simbolo portafortuna per la sua azienda subito dopo la seconda guerra mondiale, e nel corso degli anni lo ha utilizzato in vari progetti. La versione del 1978 del logo dell’elefante di Cagiva aveva dietro un grande numero uno, a strisce verticali nei colori italiani verde, bianco e rosso. Il logo è stato aggiornato nel 1985 a solo un elefante, ma dal 1987 al 1994 il tappeto sul dorso dell’elefante era una bandiera a scacchi. Nel 2000 il logo era semplicemente una testa di elefante in un ovale con il nome Cagiva sotto.

La Cagiva Elefant è probabilmente meglio conosciuta come la moto che ha portato Edi Orioli a due vittorie alla Dakar nel 1990 e nel 1994; una bicilindrica a V da 900 cc splendente nella livrea Lucky Explorer. Ma la gamma di modelli Elefant copriva una varietà maggiore rispetto a una singola cilindrata: per tutta la sua vita l’Elefant è stato dotato di motori Ducati con cilindrata di 350, 650, 750 e 900 cc.

Cagiva iniziò a correre nella classe 125 GP MX nel 1979 con risultati incoraggianti e nel 1984 conquistò il secondo posto, rompendo definitivamente il monopolio della Suzuki sulla classe nel 1985 e vincendo di nuovo nel 1986. Per l’87 e l’88 Cagiva conquistò nuovamente il secondo posto, ottenendo anche lo stesso punteggio posto nel campionato 250. Cagiva ha avuto successo anche nelle corse su strada con diversi podi in GP ma non ha mai vinto un campionato. Ma è probabilmente è per le conquiste della Dakar che Cagiva è meglio conosciuta.

Il cuore della Elefant era un motore Ducati da 650 cc, un bicilindrico a V di 90 gradi che faceva parte della famiglia di motori Ducati Pantah. Come i suoi parenti, aveca un design shock, con gli alberi a camme azionati da cinghie dentate, con le valvole azionate nel classico stile Ducati – desmodromico, che, per chi non lo sapesse, significa che le valvole sono chiuse meccanicamente dal camme così come aperto da loro. Una novità del motore Elefant era la testata del cilindro posteriore; a differenza dei precedenti motori della famiglia Pantah, la luce di scarico posteriore dell’Elefant era rivolta a poppa, la luce di aspirazione verso la parte anteriore, consentendo a entrambi i carburatori di sedersi nel cavallo della V. Anche la messa a punto del motore era leggermente più mite, ma i risultati erano eccezionali: potenza e fluidità uniche per viaggiare su sabbia, ghiaia e per scalare i pendii. Che nostalgia!