Il tema è dibattuto da tempo: brecciolino, buche, oli dispersi ed ostacoli sono sempre più spesso causa di incidenti o di danneggiamenti, ma la colpa non se la vuole mai prendere nessuno. Serve qualcuno che prima segnali l’anomalia e solo una volta che sia dimostrata l’incuria qualche speranza di risarcimento comincia a prendere forma. Invece la Corte di cassazione ha sancito ieri (27/01/009) che no, la colpa è sempre dell’ente proprietario della strada.
Il caso affrontato dagli Ermellini è a dir poco esemplare di quanto appena detto: una motociclista, nel 1997, scivola a Roma su una macchia d’olio dispersa in via Damiano Chiesa (zona Balduina), riportando gravi ferite. I rilievi della Polizia Municipale confermarono la presenza di sostanze scivolose, che originarono la perdita di aderenza del motociclo e le lesioni sofferte dalla conducente, una frattura frammentaria del braccio, giudicate guaribili con un primo referto di 40 giorni. Dunque, lesioni gravi.
In primo grado la querela della vittima contro il comune venne respinta: l’amministrazione, che aveva appaltato le varie zone della capitale ad altrettante società, negò ogni addebito, convincendo con tale versione dei fatti anche i giudici della Corte d’Appello. La centaura però non si è persa d’animo ed ha proseguito la propria battaglia fino in piazza Cavour, dove i Giudici le hanno inaspettatamente dato ragione, mettendo la parola fine ad una questione che durava da troppo tempo ma che rappresenta una vera e propria pietra miliare della giurisprudenza in materia. Vista da chi si muove con casco e dueruote, è una vera e propria vittoria.
Con la sentenza n. 1.691 il richiamo alle amministrazioni delle grandi città, ma più in generale a tutti gli enti proprietari della strada, è chiaro: nei confronti di chi deve mantenere le arterie stradali c’è una “presunzione di responsabilità per il danno causato dalle cose che si hanno in custodia”, anche se si tratta di beni, come le strade “oggetto di un uso generale e diretto da parte dei cittadini”. Il caso di specie, nel quale l’amministrazione della città ha appaltato tali servizi a terzi, ha condotto la Suprema Corte ad affermare che “la suddivisione in zone comporta per il comune un maggiore grado di sorveglianza e controllo, con conseguente responsabilità per i danni cagionati”. I giudici hanno infine aggiunto che l’impresa appaltatrice dei servizi di manutenzione “non può rispondere direttamente perché il contratto costituisce soltanto lo strumento tecnico per la realizzazione in concreto del compito istituzionale proprio dell’ente territoriale”.
Ora il fascicolo tornerà in Corte d’Appello, che dovrà riaprire il procedimento e stabilire l’entità del danno patito dalla ricorrente. Ma è significativo che, finalmente, le amministrazioni siano definitivamente riconosciute responsabili di troppi dissesti.