La storia dell’Harley-Davidson più controversa del marchio americano e perché è considerato uno dei suoi passi falsi più memorabili
Il rombo inconfondibile di un motore, quel suono pieno e profondo che sembra portare con sé la libertà delle strade aperte. Per molti, è il richiamo di una Harley-Davidson, un marchio che non è solo sinonimo di moto, ma di uno stile di vita. Le Harley non sono semplici mezzi di trasporto: sono simboli di ribellione, passione e avventura. Chiunque abbia mai sognato di attraversare la Route 66 con il vento in faccia conosce l’attrazione magnetica di questi bolidi americani.
Ma cosa succede quando un marchio leggendario come Harley-Davidson decide di sperimentare fuori dal suo habitat naturale? La storia della Topper è l’esempio perfetto di come persino i più grandi possano inciampare. Considerata da molti come la Harley più brutta di sempre, rappresenta un curioso passo falso in una tradizione altrimenti gloriosa.
Dagli anni ’50, Harley-Davidson era già sinonimo di culto, grazie anche al cinema e alla cultura pop. Attori come Marlon Brando e Steve McQueen hanno trasformato queste moto in vere e proprie icone di libertà e ribellione. Tuttavia, il boom economico del secondo dopoguerra portava con sé nuove sfide e, soprattutto, nuove opportunità. Negli anni ’60, il mercato stava cambiando. I giovani cercavano mezzi più economici e pratici per spostarsi, e gli scooter europei, come le Vespa e le Lambretta, stavano guadagnando terreno anche negli Stati Uniti.
Harley-Davidson Topper: un’idea (pessima) controcorrente
È qui che Harley-Davidson, forse accecata dall’idea di conquistare nuovi mercati, commette un errore fatale. Nel 1960 lancia la Topper, uno scooter pensato per competere con i modelli europei che stavano spopolando. A prima vista, l’idea non era del tutto folle: Harley aveva già prodotto biciclette motorizzate e piccoli veicoli utilitari durante la Seconda Guerra Mondiale, quindi provare a entrare nel segmento degli scooter non sembrava una deviazione troppo azzardata.
Ma c’è un problema: Harley-Davidson non è Vespa, né Lambretta. La Topper rappresentava tutto ciò che i fan della casa americana non cercavano: un design goffo e poco attraente, un motore debole e, soprattutto, un’anima che sembrava tradire le radici del marchio. Alimentata da un motore monocilindrico a due tempi da 165 cc, la Topper non aveva il rombo gutturale che caratterizza le Harley, né tantomeno la presenza scenica. Al contrario, era un veicolo che puntava più sulla funzionalità che sul fascino, ma falliva miseramente anche in quello.
Non è difficile capire perché la Topper sia considerata uno dei punti più bassi nella storia di Harley-Davidson. Innanzitutto, la costruzione stessa lasciava molto a desiderare. Il motore a due tempi richiedeva una miscela di benzina e olio, una soluzione poco pratica che rendeva il mezzo sporco e scomodo da gestire. Inoltre, il design—con la sua forma squadrata e poco armoniosa—era lontano anni luce dalla grazia e dalla leggerezza degli scooter italiani.
A peggiorare le cose, la Topper si posizionava in un segmento di mercato dominato da competitor che offrivano prodotti più economici, più affidabili e, soprattutto, più belli. Anche le prestazioni erano deludenti: con una velocità massima di circa 80 km/h, la Topper non riusciva a distinguersi nemmeno sul fronte della performance. E poi c’era la questione identitaria. Per i fedelissimi di Harley-Davidson, la Topper era un insulto. Era l’esatto opposto di ciò che rappresentavano le moto del marchio: non era ribelle, non era rumorosa, non era cool. Era solo uno scooter che cercava di imitare i rivali europei, senza però riuscire a catturarne l’essenza.
Nonostante il fallimento commerciale, la Topper rimane un pezzo di storia affascinante per chiunque sia appassionato di motociclette e curiosità industriali. Oggi, gli esemplari rimasti sono oggetti da collezione, ricercati più per il loro valore storico che per la loro effettiva bellezza o funzionalità. Ironia della sorte, la Topper è diventata una sorta di monito su ciò che succede quando un marchio tradisce la sua anima per inseguire un mercato che non gli appartiene.