Una testimonianza inedita riaccende il dibattito sul futuro dell’industria automobilistica italiana e svela retroscena sorprendenti sugli ultimi giorni del manager.
C’è qualcosa di profondamente malinconico nel modo in cui si sta consumando il distacco tra Torino e la sua storica industria automobilistica. Un distacco che, stando alle recenti rivelazioni, avrebbe potuto avere un destino diverso.
Come un vecchio film in bianco e nero, le parole di Bianca Carretto a PiazzaPulita riavvolgono il nastro fino agli ultimi giorni di Sergio Marchionne, svelando scenari finora rimasti nell’ombra. E un destino che poteva essere assai più roseo per le fabbriche del gruppo torinese.
La voce della storica giornalista del Corriere della Sera trema ancora quando racconta di quel pomeriggio sotto i pini del Pincio. Era l’ultima apparizione pubblica di Marchionne, per la consegna di una Jeep ai carabinieri. Nessuno sapeva che sarebbe stata l’ultima volta. Lei sì. Lo capì guardandolo barcollare, mentre gli portava dell’acqua e lo sosteneva, temendo potesse cadere da un momento all’altro.
Fu in quei momenti che Marchionne le confidò il suo ultimo progetto. Marzo 2019: aveva quella data impressa nella mente. Non era solo la scadenza del suo mandato, era il momento in cui avrebbe dovuto giocare la sua ultima carta. Voleva sedersi al tavolo con Elkann per riprendersi pezzi storici del gruppo: Ferrari, Alfa Romeo, la stessa Fiat. Non per i soldi, di quelli non aveva bisogno. Ma perché aveva capito che la sua creatura stava scivolando via.
La scelta del successore fu il primo campanello d’allarme. Alfredo Altavilla sembrava l’erede naturale, dopo dieci anni come braccio destro di Marchionne. La sua esclusione fu come un terremoto silenzioso. “A quel punto ho capito che la Fiat moriva“, confessa la Carretto. Altavilla avrebbe portato avanti la visione di Marchionne: niente chiusure di stabilimenti, niente licenziamenti, ma soprattutto un’attenzione particolare all’industria italiana dell’auto.
Persino chi con Marchionne aveva ingaggiato durissime battaglie oggi ne riconosce la visione. Michele De Palma, capo della FIOM, ricorda gli scontri per Termini Imerese e i licenziamenti. Ma ammette una differenza sostanziale: Marchionne aveva un piano industriale chiaro. Come un architetto che prima di costruire ha in mente l’intero edificio. Oggi quella visione sembra svanita nel nulla.
Le parole della Carretto risuonano come un’eco inquietante: “Marchionne non avrebbe mai chiuso uno stabilimento, non avrebbe mai licenziato degli operai, non avrebbe mai lasciato Torino“. La sua Fiat – perché lei continua testardamente a chiamarla così – aveva l’Italia nel cuore. Era più di un’azienda, era un progetto di industria nazionale.
Ora quelle parole galleggiano nell’aria come foglie d’autunno, mentre il vento del cambiamento soffia sempre più forte su Torino. La città guarda al suo futuro con occhi diversi, cercando di immaginare come sarà il domani senza quella che è stata per decenni la sua spina dorsale. E intanto, da qualche parte, il sogno di Marchionne resta sospeso, come una promessa non mantenuta.